a cura di Enzo Di Martino
Premessa
Alcuni anni orsono, mentre scrivevo la storia della centenaria istituzione artistica veneziana, ho lavorato brevemente ad un progetto di libro che doveva avere per titolo “Gusto, critica e mercato alla Biennale di Venezia”.
Il progetto si interruppe per l’improvisa scomparsa di Ettore Gian Ferrari, che per alcuni decenni aveva gestito l’ufficio vendita della Biennale, ed era dunque in grado di fornirmi le informazioni ed i dati di prima mano sulle “divergenze storiche” tra le assegnazioni dei premi, cioè l’atteggiamento della critica, e le reazioni del mercato dell’arte.
È un lavoro che bisognerebbe comunque fare nel futuro, estendendo l’indagine anche ai cosiddetti “premi storici” di pittura che hanno caratterizzato la scena dell’arte italiana negli ultimi cento anni.
Queste rassegne, grandi e piccole, hanno infatti incrociato i più importanti momenti storici ed i più significativi protagonisti dell’arte italiana del secolo, in particolare nel dopoguerra.
Svolgendo un ruolo importante, seppure giungendo spesso in ritardo rispetto agli appuntamenti della storia ed alla documentazione delle emergenze in atto nella ricerca artistica contemporanea del tempo.
Alla prima Biennale di Venezia del 1895 vennero infatti premiati l’abruzzese Francesco Paolo Michetti e Giovanni Segantini quando l’Impressionismo francese aveva già esaurito la sua spinta di rinnovamento, mentre nel 1940 il premio per la scultura andò non a caso ad Arno Brecker, l’artista preferito da Hitler.
All’indomani della Liberazione, nel 1948, i riconoscimenti vennero finalmente e significativamente assegnati, con grande ritardo, ad artisti quali Braque, Moore, Morandi, Manzù e Chagall.
Si trattava, come si vede, di scelte che con tutta evidenza rispondevano alla situazione culturale del tempo.
Anche il Premio Vasto non è sfuggito a questa “divaricazione” tra storia e contemporaneità, ma sarebbe un errore valutare le rassegne ed i premi soltanto in questa ottica particolare.
La verità, invece, è che così come la Biennale di Venezia, nel bene e nel male, ha fatto conoscere la “modernità dell’arte” in Italia, così il Premio Vasto ha certamente contribuito alla crescita della “cultura figurativa” dei suoi cittadini.
E questo, a ben vedere, costituisce di per sé un’ottima motivazione per continuare il difficile percorso iniziato nel lontano 1959.
Le figure inquiete, !’inquietudine delle fiqure
Per molto tempo la figura ha occupato una posizione di centralità nel linguaggio dell’arte perché era la sola maniera conosciuta per fare emergere e manifestare l’immaginario più profondo, potente e radicato dell’uomo.
Nella preistoria essa costituiva il modo di conoscere ed esorcizzare il pericolo, gli animali aggressivi, mentre nell’era moderna segna l’inizio di quella che chiamiamo la “civiltà delle immagini”, dimenticando, in questa considerazione, che a quel tempo gran parte delle persone non sapeva leggere.
Anche il linguaggio dell’arte occupava allora una posizione di centralità nella vita dell’uomo, perchè è attraverso di esso che venivano “raccontate” le grandi storie civili e religiose e forniti volti “credibili” ai protagonisti di quelle storie.
Ma ignoriamo spesso che le figure sono anche “portatrici di seduzione ed abbaglio”, risultano a volte illeggibili e perfino ingannevoli, come dimostra, per fare due soli esempi, il persistente mistero della “Melancolia di Dorer” o de “La tempesta” del Giorgione.
La verità è che a volte “crediamo” di poter leggere le figure, ci illudiamo di decifrarne le apparenze, senza pensare che “l’arte non trattiene il suo linguaggio sul piano della comunicazione comune, non parla attraverso maschere che appartengono al quotidiano”.
Le figure dell’arte, in realtà, sono sempre in qualche maniera disturbanti perché consentono l’apparizione di un immaginario inconosciuto, sepolto nella nostra coscienza.
Quando infatti non si verifica questa condizione di allarme vuoi dire che esse sono semplicemente mimetiche di qualcosa che già conosciamo e non provocano dunque alcun stupore, dando semmai una sensazione falsamente rassicurante. Le figure dell’arte hanno invece lo scopo di provocare una divaricazione tra la tranquillità della comunicazione visiva quotidiana e la “turbolenza” dello stimolo poetico.
Ecco perché esse non sopportano l’indifferenza e reclamano anzi una sorta di assunzione di responsabilità da parte dei riguardanti che vengono per tale via messi con le spalle al muro, dinanzi ad un evento visivo inatteso e sorprendente, stupefacente.
Questa situazione si è complicata nel nostro secolo con l’avvento della psicanalisi freudiana e la presa di coscienza di quella che chiamiamo surrealtà. In effetti quella sorta di “big-bang” della comunicazione visiva che ha “frantumato” i linguaggi dell’arte in tante schegge dirette contemporaneamente verso molteplici direzioni era già avvenuto e gli artisti si erano già impossessati della visione inoggettiva.
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È tuttavia il Surrealismo – l’ultima delle avanguardie storiche e dunque per certi versi un movimento di ritorno all’ordine – che riporta la figura nella sua originaria posizione di centralità, destinata però, questa volta, a “rappresentare” ciò che non si vede, l’invisibile, mettendo esplicitamente in gioco l’eros, facendo divenire protagonista il misterodell’Es al posto dell’Ego che è invece attento a “imporre i buoni diritti dell’economia, dell’efficienza, dell’ordine”.
A ben vedere questo aspetto inquietante della figurazione è presente nella storia dell’arte da almeno cinque secoli -da Baldung Grien a Hieronymus Bosch, da William Blake a Odilon Redon -ma è con il Surrealismo che “l’inconscio trova finalmente voce in termini visivi secondo vie diverse e contrastanti” e con una consapevolezza perfino precisata in termini teorici.
Configurando così una strategia espressiva che considera la “riflessione onirica” come il terreno di ricerca più proficuo per la manifestazione visiva dell’inconscio, quello personale dell’artista e quello dell’immaginario collettivo. Giungendo per tale via ad una sorta di “turbolenza” della figura che non corrisponde più alle attese del riguardante, ma cela invece sotto le apparenze elementi di disturbo, aspetti perfino minacciosi.
“Il fantastico, è stato infatti detto, comincia a delinerasi nello stupore ed ha la sua compiutezza nello spavento”.
Nascono così le figure inquiete e si manifesta in tale maniera l’inquietudine delle figure.
Gli artisti in mostra
Le immagini degli artisti presenti qui a Vasto, pur essendo tutte riconducibili all’interno di una vasta area definibile per l’appunto delle “figure inquiete”, risultano in realtà molto diverse sia sul piano strettamente ideativo che su quello propriamente visivo.
Appartengono ad un versante di apparente “Ieggibilità” immediata, ad esempio, quelle di Bodini, Bonichi, Ercole, Quetglas e Velasco, sebbene ciascuna di esse risulti attraversata da fremiti segreti, nascosti sotto la pelle della pittura.
Altri artisti, al contrario, avvertono maggiormente la seduzione del colore e paiono a volte dirigersi verso derive informali all’interno delle quali è possibile tuttavia rintracciare i lineamenti di accadimenti figurativi sotterranei, come nel caso di Calabria, Savinio e Vaccarone.
Alcuni di essi – penso a Giancaterimo e Pellegrini – manifestano figure impregnate di sottile ironia ed incantato lirismo, mentre personaggi come Fiducia dichiarano una sorta di “cattiveria espressiva” proveniente dall’importante esperienza della comunicazione visiva all’aperto nel nostro tempo.
Basaglia ed Eulisse appartengono invece ad una figurazione epica con accenti a volte drammatici, mentre lotti affida alla centralità dell’eros l’esistenza e la resistenza delle sue immagini.
Una atmosfera notturna avvolge i paesaggi e le apparizioni di ligaina e, infine, più propriamente inquieti, a volte minacciosi e minacciati, risultano le figure di Vacchi e di Vangi.
Si tratta come si vede di un ventaglio ideativo ed espressivo estremamente ampio e complesso riconducibile nell’insieme ad una comune condizione esistenziale, inquieta ed allarmante.
Configurando per tale via una situazione che induce a riflessioni perfino angoscianti sulle illeggibili ansie e sulle paure che assillano l’uomo del nostro tempo.
Le figure agitate di Guidi
Il titolo di questa rassegna prende le mosse proprio da alcuni lavori di Virgilio Guidi la cui opera pittorica si è sempre manifestata, fin dalla giovanile stagione romana, nel segno di una inquietante atmosfera di sapore metafisico.
Dalle “Visite” degli anni Dieci ai primi “Incontri” degli anni Trenta, dalle “Figure nello spazio” iniziate la fine degli anni ’40 alle “Figure agitate” ed alle “Pitture bianche” degli ultimi anni – all’interno delle quali emerge il ciclo de “L’uomo e il cielo” -tutto il mondo immaginativo di Guidi, che pure a volte ha sfiorato la pura astrazione -penso alle “marine spaziali” ed alle “angoscie” – si è manifestato nel segno di una figurazione inquieta ed allarmante.
In particolare le “Figure nello spazio”, rivelate clamorosamente alla Biennale di Venezia del 1948, costituiscono forse il momento più alto della riflessione di Guidi attorno all’uomo ed alla pittura.
“Le sue immagini -scrive in questa stessa occasione Toni Toniato, conoscitore dell’opera guidiana – risulteranno sempre più fantasmatiche, sagome spettrali protese in un ondeggiamento su spazi infiniti, scorporate apparenze di un indicibile moto della luce su se stessa”.
L’uomo e la luce sono stati infatti i due nodi più insititi e radicali del pensiero di Guidi, entrambi “vissuti” con una inquietudine profonda che, nel corso di un itinerario espressivo che ha “attraversato il secolo”, non si è mai alleggerita né sopita.
“Il pensiero guidiano attorno al problema della luce – scrive ancora Toniato – è stato un assillo di metafisica interrogazione sul senso dell’essere, dell’uomo ed insieme dell’universo”.
Perché la verità è che tutta l’opera pittorica di Virgilio Guidi non si è mai manifestata “soltanto in superficie” – e questo spiega anche certe naturali incomprensioni della critica d’arte – ma piuttosto all’interno della stessa pittura intesa come unica possibilità di manifestare il visibile e l’invisibile, la sola maniera di interrogarsi sul mistero della vita e dell’uomo, sull’irrisolto ed ansiogeno significato dell’eternità.
La pittura e il male
“La pittura da cavalletto, ha scritto Jacques Henrich, esige tutt’altro gesto, tutt’altro tipo di investimento -di relazione soggettiva con le forme ed i colori – da quelli suscitati dal lavoro di affreschisti, miniatori, decoratori e scultori”.
Quando la pittura scende dal muro, entra nello studio dell’artista e si deposita sulla tela nel cavalletto, scrive il pensatore francese, il male ed il malessere entrano nel suo lavoro, l’inquietudine irrompe nelle sue immagini che smettono di essere “una lode a Dio”.
È una riflessione devastante, dolorosa e tuttavia necessaria per capire tutta l’inquietudine che attraversa la storia dell’arte.
“Il pittore scopre, a mano a mano che strappa dalla tela la pelle del mondo e la propria, scrive ancora Henric con disperante lucidità, che il mondo è solo un immenso malinteso, che dare la vita è portare la morte, alimentare l’interminabile carneficina che si chiama esistenza”.
La ricerca di un’arte rassicurante che in certi periodi storici è stata fatta non conduce del resto a nessun approdo sicuro perché anche nelle a volte “incomprensibili” testimonianze dell’arte del nostro tempo – penso al pavimento frantumato di Hans Haacke nel padiglione tedesco della Biennale de! 1993 – è invece possibile leggere la metafora del disagio esistenziale dell’uomo.
“Figure Inquiete” qui a Vasto vuole allora essere, con tutta evidenza, il tentativo di una indagine sulla pittura di figura del nostro tempo, quella più esplicitamente portatrice delle ansie e delle inquietudini dell’uomo contemporaneo.