17 Luglio - 30 Agosto 1999

MITO-MITI

1999

XXXII EDIZIONE

Artisti gio­vani di fine Mil­len­nio
a cura di Car­lo Fab­rizio Car­li e Gabriele Simongi­ni


Il mito, i miti di Car­lo Fab­rizio Car­li
Mito, miti: il mito per antono­ma­sia, quel­lo del­la clas­sic­ità gre­co-romana, che, attra­ver­so i sec­oli, ha con­tin­u­a­to e con­tin­ua anco­ra oggi ad esercitare la sua capac­ità fas­ci­na­trice, coin­vol­gen­do gli artisti, ben­in­te­so nel­l’adozione di lin­guag­gi e di atti­tu­di­ni mod­erne; e  i tan­ti “miti” del­la con­tem­po­raneità — la macchi­na, i “divi” del­lo spet­ta­co­lo e del­lo sport, il com­put­er e quan­t’al­tro — che del­l’an­ti­co mito, il cui ruo­lo e la cui fun­zione era­no dunque ine­lim­inabili dal­l’an­i­mo umano, han­no pre­so il pos­to, al pari di veri e pro­pri sur­ro­gati.
Del mito, fu appun­to Fia­tone {Repub­bli­ca, 392 a) ad offrir­ci la pri­ma definizione giun­ta fino a noi, come di rac­con­ti “intorno a dei, esseri divi­ni, eroi e discese nel­l’aldilà”. In realtà, come ebbe a dimostrare Furio Jesi (I), già nel­lo stes­so Pla­tone i ter­mi­ni “mito”, “mitolo­gia” pre­sen­ta­vano la plu­ral­ità di sig­ni­fi­cati, tal­vol­ta perfi­no rec­i­p­ro­ca­mente con­flit­tuali ed anti­n­o­mi­ci, che avreb­bero poi sem­pre con­ser­va­to fino ai nos­tri giorni, così da trascor­rere dal­l’au­torev­olez­za del­la riv­e­lazione prim­i­ge­nia all’il­lu­sori­età del­la fan­tas­ticheria (non si dimen­tichi l’e­ti­molo­gia gre­ca, per cui mùθos = favola).
Ma insom­ma, con­sapevoli che il mito cos­ti­tu­isce una realtà cul­tur­ale oltremo­do com­p­lessa, è pos­si­bile giun­gere ad una sua definizione? Scrive Mircea Eli­ade, con ogni prob­a­bil­ità il mag­giore stori­co delle reli­gioni che abbia annover­a­to il nos­tro sec­o­lo: “il mito nar­ra una sto­ria sacra; riferisce un avven­i­men­to che ha avu­to luo­go nel Tem­po pri­mor­diale, il tem­po favoloso delle «orig­i­ni» (2). E anco­ra: “II mito è sem­pre la nar­razione di una «creazione»: riferisce come una cosa è sta­ta prodot­ta, ha com­in­ci­a­to ad essere” (3).
Nel gen­erale proces­so di sec­o­lar­iz­zazione e di omologazione anche il mito cam­bia, trasfor­ma le sue orig­i­nar­ie valen­ze sacrali, immane­tiz­za la sete di pri­mor­dial­ità numi­nosa. Tale atti­tu­dine si man­i­fes­ta medi­ante “una riv­ol­ta con­tro il tem­po stori­co, il deside­rio di accedere ad altri rit­mi tem­po­rali al pos­to di quel­lo in cui si è costret­ti a vivere e a lavo­rare” (4).
Eli­ade, non a caso grande esper­to di nar­ra­ti­va, essendosi egli stes­so cimen­ta­to — a fian­co del­l’at­tiv­ità sci­en­tifi­ca — come nar­ra­tore, con opere di incon­testa­bile qual­ità, face­va rifer­i­men­to in par­ti­co­lare al cam­po let­ter­ario; ma, a ben vedere, altret­tan­to può sosten­er­si anche riguar­do il dominio delle arti visive. “Finché sus­siste questo deside­rio — sono anco­ra parole del­lo stu­dioso romeno — si può dire che l’uo­mo mod­er­no con­ser­va anco­ra almeno cer­ti residui di un «com­por­ta­men­to mito­logi­co». Le trac­ce di un tale com­por­ta­men­to mito­logi­co si riv­e­lano nel deside­rio di ritrovare l’in­ten­sità con cui si è vis­su­ta o si è conosci­u­ta una cosa per la pri­ma vol­ta, di recu­per­are il lon­tano pas­sato, l’e­poca beat­i­fi­ca degli «inizi». Come c’era da aspet­tar­si, è sem­pre la stes­sa lot­ta con­tro il Tem­po, la stes­sa sper­an­za di lib­er­ar­si dal peso del «Tem­po mor­to», dal Tem­po che schi­ac­cia e uccide” (5).
Mi scu­so con il let­tore per la lunghez­za del­la citazione, che d’al­tronde mi sem­bra­va illu­mi­nante, non solo riguar­do l’in­di­vid­u­azione del­la super­stite prat­i­ca­bil­ità del mito nel­la realtà con­tem­po­ranea, ma altresì per la mes­sa a fuo­co del­l’at­ti­tu­dine mit­i­ca, capace di assi­cu­rare, offren­dole l’im­pronta, tale prat­i­ca­bil­ità.
Il mito, i miti, dunque. E gli artisti, per­lop­più gio­vani e gio­vanis­si­mi, selezionati in ques­ta edi­zione del Pre­mio Vas­to ad offrire una tes­ti­mo­ni­an­za conc­re­ta di come, nel cam­po del­la cre­ativ­ità estet­i­ca, la dimen­sione mit­i­ca sia per­cepi­ta e inter­pre­ta­ta nel prob­lem­ati­co crinale di fine sec­o­lo e mil­len­nio.
Mi sem­bra pure cir­costan­za deg­na di seg­nalazione che, men­tre dal pun­to di vista del­l’età degli artisti pre­sen­ti in mostra il seg­men­to inter­es­sato risul­ta forte­mente omo­ge­neo, assai ampio e diver­si­fi­ca­to è invece lo spet­tro dei lin­guag­gi e delle tec­niche imp­ie­gate, che spazia dal­la scul­tura alla pit­tura pro­pri­a­mente deno­tate, dal­l’in­ci­sione alle elab­o­razioni di com­put­er art, agli inter­ven­ti di mar­ca ogget­tuale, alle istal­lazioni.
NOTE
1) Furio Jesi, Mito, Mon­dadori, Milano 1980.
2) Mircea Eli­ade, Mito e real­ta, Boria, Tori­no 1966, p. 27.
3) M. Eli­ade, op. cìt, p. 28.
4) M. Eli­ade, op. cìt., p. 226.
5) M. Eli­ade, op. cit., pp. 226–7.


L’enig­mati­co volto del mito di Gabriele Simongi­ni
L’arte come magia, rito e incan­ta­men­to può riv­e­lare tut­to­ra la sua pro­fon­da sostan­za mit­i­ca, nel sen­so eti­mo­logi­co del ter­mine gre­co, mŷthos, ovvero nar­razione, favola, leggen­da. E pro­prio ai giorni nos­tri l’en­er­gia mit­i­ca del­l’arte può dare cor­po ad un virus vitale che riesca a con­trap­por­si alla glaciale dit­tatu­ra tec­no­log­i­ca del prodot­to nuo­vo ad ogni cos­to in quan­to sot­tomes­so alle logiche del mer­ca­to: in tal sen­so il mito, come ha ben nota­to Mau­r­izio Calvesi (1), è “il sacro laico” che aiu­ta a “ricor­dare ‘l’o­rig­ine’ ”.
Sec­on­do quan­to ha luci­da­mente scrit­to Gün­ter Metken, “se adesso anco­ra una vol­ta ci si occu­pa dei miti, — purché non si trat­ti di giochi di citazioni come nel caso del­l’ar­chitet­tura post­mod­er­na — è per arginare il con­trol­lo invis­i­bile di una realtà pura­mente medi­ale, che, con il proces­so di rel­a­tiviz­zazione di tut­to ciò che vedi­amo e udi­amo, por­ta con sé una perdi­ta di memo­ria che nes­suna
ban­ca dati è più in gra­do di com­pen­sare. Il ricor­so al miti­co da l’im­pres­sione tal­vol­ta qua­si di un atto di dis­per­azione” (2). In una civiltà che, come ha intu­ito Jean Bau­drillard, ha per­du­to l’u­nic­ità e
l’e­sem­plar­ità del deside­rio per sos­ti­tuir­le con banali sur­ro­gati, il rispec­chi­a­men­to del­l’arte nel mito, assai più che nel­la pura e sem­plice mitolo­gia, pone un accen­to salv­i­fi­co, un ten­ta­ti­vo di ritrovare
le radi­ci psichiche e sim­boliche del­la nos­tra stes­sa vita inte­ri­ore.
In questo sen­so il mito è sen­za fine e illim­i­ta­to, è un labir­in­to di spec­chi in cui arche­tipi col­let­tivi e mem­o­rie indi­vid­u­ali, sper­anze e attese, ansie e inqui­etu­di­ni si fon­dono nel cro­gi­o­lo del­l’im­mag­i­nario artis­ti­co, dove l’e­ter­nità è un volto enig­mati­co che non spie­ga ne nasconde alcunché ma solo accen­na sor­ri­den­do. In tal modo, per citare anco­ra quan­to ha scrit­to Gün­ter Metken, “i miti e le fig­ure mito­logiche sono diven­tate per i pit­tori fig­ure men­tali, immag­i­ni flut­tuan­ti. Può dipen­dere da ques­ta inde­ter­mi­natez­za e vastità di inter­pre­tazione il fat­to che i miti si offra­no sem­pre di più come lin­guag­gio uni­ver­sale per la com­pren­sione visuale” (3).
Così il mito, in tutte le sue vari­anti stori­co-geogra­fiche ed etniche, diven­ta oggi per la cre­ativ­ità artis­ti­ca un ves­sil­lo di lib­ertà immag­i­na­ti­va sostanzi­a­ta di uman­ità demi­ur­gi­ca, uno ster­mi­na­to vocabo­lario in cui il fone­ma ele­mentare e il sim­bo­lo si iden­ti­f­i­cano e si com­pen­e­tra­no trasfor­man­do l’arte in lin­guag­gio magi­co. “Il mito — ha scrit­to Mircea Eli­ade — è un prece­dente per i modi del reale
in gen­erale (…). Riv­ela una strut­tura del reale inac­ces­si­bile all’ap­prendi­men­to empiri­co-razion­al­is­ti­co” (4). E, si può aggiun­gere, le sue stesse strut­ture “rap­p­re­sen­ta­tive” sem­bra­no iden­ti­fi­car­si con i cod­i­ci del­la poe­sia e delle arti visive poiché, come ha nota­to anco­ra Eli­ade, “il mito esprime plas­ti­ca­mente e dram­mati­ca­mente quel che la metafisi­ca e la teolo­gia definis­cono dialet­ti­ca­mente” (5). Il mito, con tutte le sue strat­i­fi­cazioni sim­boliche, può dunque essere oggi un pretesto poi­eti­co per rimet­tere in moto un mec­ca­n­is­mo del­l’im­mag­i­nazione che vada in pro­fon­dità, per con­frontar­si con l’on­da lun­ga del tem­po, del sacro e per ritrovare il cor­ag­gio di creare opere ideal­mente capaci di sfi­dare il “giudizio” del­l’e­ter­nità. Quan­to più le ten­den­ze artis­tiche oggi di moda van­no ver­so una sma­te­ri­al­iz­zazione pseu­do-spet­ta­co­lare del­l’e­s­pe­di­ente che cer­ca invano di nascon­dere un’arid­ità cre­ati­va e lin­guis­ti­ca, tan­to più si sente nec­es­saria l’af­fer­mazione di forme sim­boliche fon­date sul­la reazione alla perdi­ta di memo­ria stor­i­ca dei tem­pi attuali. E poiché la nos­tra ten­sione percetti­va di uomi­ni di fine mil­len­nio sem­bra assogget­ta­ta alla calei­do­scop­i­ca, sedu­cente e super­fi­ciale “dan­za” del­la vir­tu­al­ità tec­no­log­i­ca e del­l’on­nipresen­za mass­me­di­ale, pro­prio la riscop­er­ta del mito si con­figu­ra per con­trasto come ricon­giung­i­men­to con le nos­tre fon­da­men­tali radi­ci psichiche e bio­logiche, come “arche­olo­gia del pro­fon­do”, come ver­ità dei desideri e delle pau­re. Del resto, ha scrit­to George Stein­er, “le stesse fon­da­men­ta delle nos­tre arti e
del­la nos­tra civiltà […] sono mitiche” (6).
In questo con­testo sono sta­ti invi­tati al XXXII Pre­mio Vas­to alcu­ni artisti gio­vani, o tutt’al più apparte­nen­ti alla gen­er­azione di mez­zo, per con­frontar­si con quel­lo che potrem­mo chia­mare il “prog­et­to-mito”, una sor­ta di psi­co­machia in cui si sta­bilis­ca una relazione dialet­ti­ca tra leggende del pas­sato e nuovi ves­sil­li mate­ri­ali o spir­i­tu­ali, tra i miti indi­vid­u­ali e quel­li col­let­tivi, tra pre­sen­ze
esem­plari del­l’an­ti­chità e mod­el­li del­la con­tem­po­raneità, nel­la mag­giore vari­età pos­si­bile di lin­guag­gi cre­ativi. Ne vien fuori un vitale per­cor­so di seg­ni, sim­boli, trac­ce, visioni che ideal­mente fa da ponte ver­so il sog­no del futuro.
Gli artisti ora pre­sen­tati a Vas­to han­no quin­di pro­pos­to un con­fron­to con il mito con­cepi­to come pro­fon­dità evoca­ti­va del­la “grande memo­ria”, la memo­ria del genere umano di cui han­no par­la­to pri­ma il grande poeta irlan­dese William Buti­er Yeats e poi lo scrit­tore argenti­no Jorge Luis Borges. In tale con­testo e nel panora­ma del­l’arte attuale è fon­da­men­tale affer­mare l’u­nic­ità infe­ri­ore del­l’at­to cre­ati­vo, che deve nec­es­sari­a­mente visu­al­iz­zarsi in una for­ma inseri­bile nel­la con­ti­nu­ità di un com­p­lesso proces­so stori­co.
Innu­merevoli equiv­o­ci stan­no nascen­do tut­to­ra tra le gio­vani gen­er­azioni intorno alla radice forte­mente “con­cettuale” di molte opere col­lo­ca­bili nel­la fase eroica delle avan­guardie storiche, dal “Quadra­to bian­co su fon­do bian­co” di Male­vic ai “ready-made” di Duchamp. È dunque una pura illu­sione quel­la di pot­er dare orig­ine ad un’­opera d’arte attra­ver­so un banale proces­so di vari­azione o rielab­o­razione del­l’im­pat­to icon­o­clas­ta che sem­bra ad esem­pio carat­ter­iz­zare i lavori di Duchamp, pro­prio per­ché egli ha rag­giun­to un tale gra­do di azzera­men­to oper­a­ti­vo e men­tale che non è cer­to ripro­ducibile con i suoi stes­si stru­men­ti oper­a­tivi e con la stes­sa inten­sità se non per­den­do total­mente la pro­fon­dità evoca­ti­va e la forza del gesto in sé con­clu­so, cari­co di riso­nanze inte­ri­ori che sfio­ra­no il lim­ite del­l’in­signif­i­can­za provo­ca­to­ria.
Una pos­si­bile via d’us­ci­ta sta pro­prio nel­lo sve­la­men­to del­l’eter­na atti­tu­dine mit­i­ca del­l’arte e del­la sua catar­si ludi­ca attra­ver­so le varie tec­niche oper­a­tive: e non a caso nel­l’an­ti­ca Gre­cia l’arte si chia­ma­va Téchne e in Giap­pone Aso­bi, ossia gio­co. Anco­ra oggi la capac­ità di var­care la por­ta del mito può sus­citare innu­merevoli sor­p­rese.
NOTE
1) M. Calvesi, “Aster­ischi intorno al mito e all’arte (di oggi)”, in cat­a­l­o­go del­la mostra “L’Om­bra
degli Dei. Mito gre­co e arte con­tem­po­ranea”, Civi­ca Gal­le­ria “Rena­to Gut­tuso” — Vil­la Cat­toli­ca.
Baghe­ria, 9 mag­gio ‑12 luglio 1998, Elec­ta Napoli, p. 15.
2) G. Metken, “La sfi­da di Icaro”, in cat­a­l­o­go del­la mostra “L’Om­bra degli Dei. Mito gre­co e arte
con­tem­po­ranea”, cit., p. 79.
3) G. Metken, op. cit., p. 83.
4) M. Eli­ade, “Trat­ta­to di sto­ria delle reli­gioni”, Edi­tore Bor­inghieri, Tori­no 1976, p. 431.
5) M. Eli­ade, op. cit, p. 433.
6) G. Stein­er, “Le Antigo­ni”, Garzan­ti, Milano 1990.


Scul­tori ceramisti a Castel­li di Car­lo Fab­rizio Car­li
La con­sue­ta mostra “omag­gio” allesti­ta in occa­sione del Pre­mio Vas­to è ded­i­ca­ta quest’an­no al grup­po di scul­tori ceramisti di Castel­li che, nel­l’ul­ti­mo ven­ten­nio, ha ripro­pos­to con lin­guag­gi tut­ti mod­erni l’in­signe tradizione d’arte che fece del cen­tro abruzzese, demografi­ca­mente esiguo e geografi­ca­mente defi­la­to dal­la map­pa del potere del tem­po, una delle cap­i­tali del­la ceram­i­ca euro­pea, tra Cinque e Set­te­cen­to. Le ceramiche cinque­cen­tesche del­la pro­duzione “Orsi­ni-Colon­na”; l’is­to­ri­a­to usci­to, nel cor­so del XVII e XVIII sec­o­lo, dalle cele­bri bot­teghe dei Grue e dei Gen­tile, occu­pano oggi preziose vetrine nei prin­ci­pali musei di mez­zo mon­do. Un ruo­lo prezioso l’ha svolto fin dal­la fon­dazione, all’inizio del sec­o­lo (dopo una lun­ga preparazione), la locale Scuo­la d’arte per la ceram­i­ca, che ha con­tribuito a man­ten­er viva la tradizione figuli­na, richia­man­do a Castel­li, nel ruo­lo di inseg­nan­ti, artisti validis­si­mi, da Gior­gio Baitel­lo a Guer­ri­no Tra­mon­ti, tan­to per fare dei nomi.
Il grup­po dei ceramisti castel­lani, ormai non più atti­vo nel­la sua aggregazione, conobbe in pas­sato impor­tan­ti momen­ti espos­i­tivi comu­ni­tari, a com­in­cia­re dal­la rasseg­na “Artetem­po”, tenu­tasi nel 1987, a cura di Enri­co Crispolti e Lui­gi Pao­lo Finizio, nel Museo delle Ceramiche di Castel­li (assieme a Cheng, Di Giosaf­fat­te, Scian­nel­la, esponevano in quel­l’oc­ca­sione anche Rober­to Ben­ti­ni Gior­gio Sat­urni).
Faus­to Cheng, Vin­cen­zo Di Giosaf­fat­te, Gian­car­lo Scian­nel­la sono — va subito det­to — degli scul­tori a pieno tito­lo. Molto spes­so, il mate­ri­ale ceram­i­co ricon­duce il pen­siero ad un reper­to­rio arti­gianale ed util­i­tario, ad una dec­li­nazione ancil­lare del­la cre­ativ­ità estet­i­ca. Nel caso dei nos­tri tré artisti, tale accezione risul­terebbe — ancor pri­ma che ingius­ta­mente ridut­ti­va e penal­iz­zante ‑criti­ca­mente fuor­viante. Scul­tori, quin­di, che imp­ie­gano il mez­zo ceram­i­co, invece, poni­amo, del mar­mo o del bron­zo, e in quan­to tali espo­nen­ti di una pag­i­na d’arte che è, ai nos­tri occhi tra le più sin­go­lari e sig­ni­fica­tive del­l’arte abruzzese del sec­on­do Nove­cen­to (e non è riconosci­men­to da poco, stante la nota vivac­ità del panora­ma artis­ti­co regionale). Appun­to in virtù di tale qual­ità, essi sono des­ti­natari del­l’odier­no “omag­gio” del Vas­to; tut­tavia occorre anche ril­e­vare che la loro pre­sen­za non è, a ben vedere, estranea alla tem­at­i­ca prescelta per la sezione prin­ci­pale del­la rasseg­na — il Miti i Miti -, assec­on­dan­dola anzi in modo sin­go­lare. Com­in­cian­do pro­prio dal­la con­sid­er­azione gen­erale che l’artista che plas­ma l’argilla, che imprime la for­ma alla mas­sa casuale del­la mate­ria ; il più prossi­mo all’at­ti­tu­dine creazionale.

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