Artisti dell’Accademia di Brera a cura di Massimo Cerritelli
1. Percorso dell’arte in forma di labirinto
Che l’arte contemporanea, nelle sue alterne vicende, possa essere letta attraverso la metafora del labirinto è forse una convinzione talmente evidente da non richiedere forzate dimostrazioni.
Labirinto come sperimentalismo linguistico, esperimento delle materie, processo di conoscenza poetica del mondo attraverso un percorso che non ha direzioni se non quello del moto perpetuo intorno ai fondamenti del linguaggio.
Come nella struttura del labirinto, l’arte persegue un cammino interminabile, un percorso all’interno del proprio immaginario che possiamo paragonare ad un movimento che torna su stesso senza dover essere condizionato da una meta precisa da raggiungere.
Assumendo all’interno del nostro discorso l’idea di labirinto intendiamo porci nella condizione dell’osservatore che incontra opere di natura diversa senza il desiderio di definirle a tutti i costi, oppure, anzi peggio, di catalogarle, di omologarle all’interno di qualche schema di lettura che potrebbe impoverire la ricchezza di senso che le opere producono, al di là di ogni ragionevole necessità di inquadramento stilistico e formale.
Nel labirinto dell’arte contemporanea si prova un’ansia e uno smarrimento paragonabile allo stupore e allo spaesamento di fronte ai segni disseminati in uno spazio senza confini, in una costruzione del contesto linguistico che si sviluppa come sistema aperto, difficile da restringere, ancor più difficile da controllare nella sua illimitata produzione di senso e di sensorialità.
E per questo motivo che il pubblico dell’arte contemporaneo ha spesso l’impressione di perdersi nel labirinto delle forme, anzi di perdere la bussola in un territorio che è sempre stato mobile e sfuggente, difficile e intrigante, quasi impossibile da codificare.
Un territorio impervio, dunque, che non offre garanzie rassicuranti, in cui si affievolisce la padronanza del conoscere e del riconoscere le forme dell’immaginario.
Nel labirinto dell’arte contemporanea non v’è possibilità di essere garantiti, si è di fronte ad un gioco dalle mille aperture, ove non ci sono vinti e vincitori, semmai autori che si sentono sempre messi in discussione, soggetti che accettano l’infinito esperimento del pensare e del fare arte.
Se osserviamo il panorama artistico delle avanguardie storiche e dei ritorni alla tradizione abbiamo l’esatta sensazione di come il secolo appena trascorso sia stato un labirinto seducente, costruito con l’urgenza di infrangere i risultati via via conseguiti.
Non a caso, si ha la netta sensazione che il filo del discorso creativo sia costituito da un insieme di filiazioni linguistiche, di intrecci espressivi e di tensioni comunicative, di strategie che si dipanano in modo circolare e si awolgono su se stesse.
Nell’introduzione ad una mostra dei primi Anni Novanta dedicata a “I labirinti del segno” Janus avverte che “l’arte moderna è ricca di labirinti: Picasso e Braque hanno costruito i loro quadri cubisti sotto forma di labirinto, dietro il quale appare costantemente una figura umana o un oggetto chiaramerite riconoscibile. Anche i futuristi hanno adoperato lo stesso procedimento.
I quadri più significativi di Klee sono veri e propri labirinti, ma assomigliano anche ad ardue composizioni musicali: essi dicono sempre alla fine qualcosa di concreto.
Mondrian è un enigmatico inventore di labirinti.
Molte opere di Duchamp propongono un viaggio esoterico attraverso le ombre e le luci del labirinto. (…) Man Ray ha dipinto e costruito labirinti in forma di scacchiera (ed inoltre attraverso i suoi giochi linguistici).
Anche i surrealisti sono stati attratti da questa magico visione: la loro più famosa rivista si chiamava ‘Minotaure’, – che è l’abitante dei segreti sotterranei del labirinto, ma è anche la forma concreta e reale che appare alla fine del lungo viaggio attraverso le sue viscere, non solo apportatore di morte, ma di meraviglio e di stupore”.
Il repertorio di contributi, volontari o involontari, a questa immagine del labirinto è ampio e articolato, gli esempi appena ricordati sono la premessa ad un modo di avvertire questo simbolo come luogo in cui la ricerca della verità estetica è ardua, complessa e indecifrabile.
Per avanzare sul piano della storia artistica contemporanea bisogna ricordare altri contributi significativi: nell’enigma metafisico si annida la presenza del labirinto, nel groviglio di segni informali non può non riconoscersi lo schema labirintico del filo che non segue una direzione precisa ma il proprio orientamento soggettivo, come misura di tutte le cose.
All’iconografia del labirinto si riferiscono Tennis Hoppenheim e Richard Long, Joe Tilson e Terry Fox, Claudio Parmiggiani e Lucio del Pezzo, Luigi Veronesi e Piero Dorazio, che hanno conferito a questo icona il ruolo di esplorazione delle fonti sconosciute della rappresentazione, del visibile e dell’invisibile, attraverso le forme dell’ignoto o del tortuoso viaggio verso la conoscenza inferiore.
Alla luce di questi riferimenti si può dunque dire che ogni artista è produttore di percorsi labirintici e che questa complessa metafora spaziale, è qualcosa di più forte di qualunque altra rappresentazione del lavoro artistico.
Come flusso dei linguaggi possibili, il desiderio del labirinto diventa, da un lato, la condizione del fare creativo e dall’altro, il luogo dove si creano molteplici modelli operativi che vanno dal lavoro manuale a quello digitale, dal progetto alla sua esecuzione, dalla costruzione dello spazio alla sua frantumazione, dal sogno della centralità all’urgenza della disseminazione.
In un testo dei primi Anni Ottanta Achille Bonito Oliva ha immaginato l’artista come un Teseo che “attraversa i meandri del linguaggio per affrontare il cuore pulsante del labirinto, la presenza ctonia con sembianze umane ed animali.
L’artista porta con sé la necessaria ambiguità per carpire quella della natura, egli incontra il caso e lo riconosce ma non agisce mai a caso, ha bisogno prima di frantumare l’oggetto nell’inconscio evitando di fondersi con esso e poi si pone in una situazione di alterità”.
Questa condizione consente di trasformare i significati dell’arte durante il processo di invenzione, essa inoltre facilita il cammino nel labirinto delle forme e, al tempo stesso, permette di non considerare mai compiuta l’opera.
Bisogna essere assolutamente nomadi, questo imperativo categorico che Francis Picabia propugnavo nel suo rinnovamento dadaista del concetto di arte sta alla radice dell’atteggiamento che porta ad affrontare il labirinto come condizione non eludibile della sensibilità creativa, come movimento del desiderio che va in tutte le direzioni, affonda nelle profondità più insondabili ed emerge verso i miraggi della superficie.
La totalità di questi orientamenti è il verso senso dell’arte, ne rappresenta il percorso inquieto, la molteplicità dei dati sensoriali, vale a dire la sua identità sinestetica, non riducibile ad un unico processo ma comprensibile nella sua globalità.
Nell’introduzione al bei “libro dei labirinti” di Paolo Santarcangeli (1984) Umberto Eco ha scritto che “un libro sui labirinti non può che essere labirintico”.
Dunque non è possibile sottrarsi – anche nel nostro breve caso – all’impulso di entrare nel luogo della mostra con l’animo di chi accetta di perdersi tra le opere ambientate lungo i corridoi e le sale, sul pavimento e alle pareti, osservando le affinità e ai contrasti, le sintonie e le distanze tra i linguaggi messi in scena in un percorso che per quanto lineare, è sempre difficile attraversare.
Ecco che l’affascinante immagine del labirinto come “caverna dai molteplici cunicoli e corridoi” può funzionare come luogo dell’infinito gioco linguistico che gli artisti di questa mostra interpretano attraverso le diverse sembianze del corpo dell’arte.
Entrare nel “Labirinto dell’immaginario” – come recita il titolo di questo progetto espositivo – significa ritornare alle origini, riattivando quella vocazione all’avventura e all’erranza che è senza dubbio uno dei caratteri fondamentali dell’atto creativo.