21 Luglio - 2 Settembre 2001 2001

LABIRINTO DELL'IMMAGINARIO

2001

XXXIV EDIZIONE

Artisti del­l’Ac­cad­e­mia di Brera a cura di Mas­si­mo Cerritelli

1. Per­cor­so del­l’arte in for­ma di labirinto

Che l’arte con­tem­po­ranea, nelle sue alterne vicende, pos­sa essere let­ta attra­ver­so la metafo­ra del labir­in­to è forse una con­vinzione tal­mente evi­dente da non richiedere forzate dimostrazioni.

Labir­in­to come sper­i­men­tal­is­mo lin­guis­ti­co, esper­i­men­to delle materie, proces­so di conoscen­za poet­i­ca del mon­do attra­ver­so un per­cor­so che non ha direzioni se non quel­lo del moto per­petuo intorno ai fon­da­men­ti del linguaggio.

Come nel­la strut­tura del labir­in­to, l’arte persegue un cam­mi­no inter­minabile, un per­cor­so all’in­ter­no del pro­prio immag­i­nario che pos­si­amo parag­onare ad un movi­men­to che tor­na su stes­so sen­za dover essere con­dizion­a­to da una meta pre­cisa da raggiungere.

Assumen­do all’in­ter­no del nos­tro dis­cor­so l’idea di labir­in­to inten­di­amo por­ci nel­la con­dizione del­l’osser­va­tore che incon­tra opere di natu­ra diver­sa sen­za il deside­rio di definir­le a tut­ti i costi, oppure, anzi peg­gio, di cat­a­log­a­r­le, di omolog­a­r­le all’in­ter­no di qualche schema di let­tura che potrebbe impov­erire la ric­chez­za di sen­so che le opere pro­ducono, al di là di ogni ragionev­ole neces­sità di inquadra­men­to stilis­ti­co e formale.

Nel labir­in­to del­l’arte con­tem­po­ranea si pro­va un’an­sia e uno smar­ri­men­to parag­o­nabile allo stu­pore e allo spae­sa­men­to di fronte ai seg­ni dis­sem­i­nati in uno spazio sen­za con­fi­ni, in una costruzione del con­testo lin­guis­ti­co che si svilup­pa come sis­tema aper­to, dif­fi­cile da restrin­gere, ancor più dif­fi­cile da con­trol­lare nel­la sua illim­i­ta­ta pro­duzione di sen­so e di sensorialità.

E per questo moti­vo che il pub­bli­co del­l’arte con­tem­po­ra­neo ha spes­so l’im­pres­sione di perder­si nel labir­in­to delle forme, anzi di perdere la bus­so­la in un ter­ri­to­rio che è sem­pre sta­to mobile e sfuggente, dif­fi­cile e intri­g­ante, qua­si impos­si­bile da codificare. 

Un ter­ri­to­rio imper­vio, dunque, che non offre garanzie ras­si­cu­ran­ti, in cui si affievolisce la padro­nan­za del conoscere e del riconoscere le forme dell’immaginario. 

Nel labir­in­to del­l’arte con­tem­po­ranea non v’è pos­si­bil­ità di essere garan­ti­ti, si è di fronte ad un gio­co dalle mille aper­ture, ove non ci sono vin­ti e vinci­tori, sem­mai autori che si sentono sem­pre mes­si in dis­cus­sione, sogget­ti che accettano l’in­fini­to esper­i­men­to del pen­sare e del fare arte.

Se osservi­amo il panora­ma artis­ti­co delle avan­guardie storiche e dei ritorni alla tradizione abbi­amo l’e­sat­ta sen­sazione di come il sec­o­lo appe­na trascor­so sia sta­to un labir­in­to sedu­cente, costru­ito con l’ur­gen­za di infran­gere i risul­tati via via con­se­gui­ti.
Non a caso, si ha la net­ta sen­sazione che il filo del dis­cor­so cre­ati­vo sia cos­ti­tu­ito da un insieme di fil­i­azioni lin­guis­tiche, di intrec­ci espres­sivi e di ten­sioni comu­nica­tive, di strate­gie che si dipanano in modo cir­co­lare e si awol­go­no su se stesse.

Nel­l’in­tro­duzione ad una mostra dei pri­mi Anni Novan­ta ded­i­ca­ta a “I labir­in­ti del seg­no” Janus avverte che “l’arte mod­er­na è ric­ca di labir­in­ti: Picas­so e Braque han­no costru­ito i loro quadri cubisti sot­to for­ma di labir­in­to, dietro il quale appare costan­te­mente una figu­ra umana o un ogget­to chiaramerite riconosci­bile. Anche i futur­isti han­no adop­er­a­to lo stes­so procedimento. 

I quadri più sig­ni­fica­tivi di Klee sono veri e pro­pri labir­in­ti, ma assomigliano anche ad ardue com­po­sizioni musi­cali: essi dicono sem­pre alla fine qual­cosa di concreto. 

Mon­dri­an è un enig­mati­co inven­tore di labirinti. 

Molte opere di Duchamp pro­pon­gono un viag­gio eso­teri­co attra­ver­so le ombre e le luci del labir­in­to. (…) Man Ray ha dip­in­to e costru­ito labir­in­ti in for­ma di scac­chiera (ed inoltre attra­ver­so i suoi giochi linguistici).

Anche i sur­re­al­isti sono sta­ti attrat­ti da ques­ta magi­co visione: la loro più famosa riv­ista si chia­ma­va ‘Mino­tau­re’, — che è l’abi­tante dei seg­reti sot­ter­ranei del labir­in­to, ma è anche la for­ma conc­re­ta e reale che appare alla fine del lun­go viag­gio attra­ver­so le sue vis­cere, non solo appor­ta­tore di morte, ma di mer­av­iglio e di stupore”.

Il reper­to­rio di con­tribu­ti, volon­tari o involon­tari, a ques­ta immag­ine del labir­in­to è ampio e arti­co­la­to, gli esem­pi appe­na ricor­dati sono la pre­mes­sa ad un modo di avver­tire questo sim­bo­lo come luo­go in cui la ricer­ca del­la ver­ità estet­i­ca è ard­ua, com­p­lessa e indecifrabile.

Per avan­zare sul piano del­la sto­ria artis­ti­ca con­tem­po­ranea bisogna ricor­dare altri con­tribu­ti sig­ni­fica­tivi: nel­l’enig­ma metafisi­co si anni­da la pre­sen­za del labir­in­to, nel groviglio di seg­ni infor­mali non può non riconoscer­si lo schema labir­in­ti­co del filo che non segue una direzione pre­cisa ma il pro­prio ori­en­ta­men­to sogget­ti­vo, come misura di tutte le cose.

All’i­cono­grafia del labir­in­to si riferiscono Ten­nis Hop­pen­heim e Richard Long, Joe Tilson e Ter­ry Fox, Clau­dio Parmiggiani e Lucio del Pez­zo, Lui­gi Verone­si e Piero Dorazio, che han­no con­fer­i­to a questo icona il ruo­lo di esplo­razione delle fonti sconosciute del­la rap­p­re­sen­tazione, del vis­i­bile e del­l’in­vis­i­bile, attra­ver­so le forme del­l’ig­no­to o del tor­tu­oso viag­gio ver­so la conoscen­za inferiore.

Alla luce di questi rifer­i­men­ti si può dunque dire che ogni artista è pro­dut­tore di per­cor­si labir­in­ti­ci e che ques­ta com­p­lessa metafo­ra spaziale, è qual­cosa di più forte di qualunque altra rap­p­re­sen­tazione del lavoro artistico.

Come flus­so dei lin­guag­gi pos­si­bili, il deside­rio del labir­in­to diven­ta, da un lato, la con­dizione del fare cre­ati­vo e dal­l’al­tro, il luo­go dove si cre­ano moltepli­ci mod­el­li oper­a­tivi che van­no dal lavoro man­uale a quel­lo dig­i­tale, dal prog­et­to alla sua ese­cuzione, dal­la costruzione del­lo spazio alla sua fran­tu­mazione, dal sog­no del­la cen­tral­ità all’ur­gen­za del­la disseminazione.

In un testo dei pri­mi Anni Ottan­ta Achille Boni­to Oli­va ha immag­i­na­to l’artista come un Teseo che “attra­ver­sa i mean­dri del lin­guag­gio per affrontare il cuore pul­sante del labir­in­to, la pre­sen­za cto­nia con sem­bianze umane ed animali. 

L’artista por­ta con sé la nec­es­saria ambi­gu­i­tà per carpire quel­la del­la natu­ra, egli incon­tra il caso e lo riconosce ma non agisce mai a caso, ha bisog­no pri­ma di fran­tu­mare l’ogget­to nel­l’in­con­scio evi­tan­do di fonder­si con esso e poi si pone in una situ­azione di alterità”.

Ques­ta con­dizione con­sente di trasfor­mare i sig­ni­fi­cati del­l’arte durante il proces­so di inven­zione, essa inoltre facili­ta il cam­mi­no nel labir­in­to delle forme e, al tem­po stes­so, per­me­tte di non con­sid­er­are mai com­pi­u­ta l’opera.

Bisogna essere asso­lu­ta­mente noma­di, questo imper­a­ti­vo cat­e­gori­co che Fran­cis Picabia prop­ug­na­vo nel suo rin­no­va­men­to dadaista del con­cet­to di arte sta alla radice del­l’at­teggia­men­to che por­ta ad affrontare il labir­in­to come con­dizione non eludi­bile del­la sen­si­bil­ità cre­ati­va, come movi­men­to del deside­rio che va in tutte le direzioni, affon­da nelle pro­fon­dità più insond­abili ed emerge ver­so i mirag­gi del­la superficie.

La total­ità di questi ori­en­ta­men­ti è il ver­so sen­so del­l’arte, ne rap­p­re­sen­ta il per­cor­so inqui­eto, la molteplic­ità dei dati sen­so­ri­ali, vale a dire la sua iden­tità sinestet­i­ca, non riducibile ad un uni­co proces­so ma com­pren­si­bile nel­la sua globalità.

Nel­l’in­tro­duzione al bei “libro dei labir­in­ti” di Pao­lo Santar­can­geli (1984) Umber­to Eco ha scrit­to che “un libro sui labir­in­ti non può che essere labirintico”. 

Dunque non è pos­si­bile sot­trar­si — anche nel nos­tro breve caso — all’im­pul­so di entrare nel luo­go del­la mostra con l’an­i­mo di chi accetta di perder­si tra le opere ambi­en­tate lun­go i cor­ri­doi e le sale, sul pavi­men­to e alle pareti, osser­van­do le affinità e ai con­trasti, le sin­tonie e le dis­tanze tra i lin­guag­gi mes­si in sce­na in un per­cor­so che per quan­to lin­eare, è sem­pre dif­fi­cile attraversare. 

Ecco che l’af­fasci­nante immag­ine del labir­in­to come “cav­er­na dai moltepli­ci cuni­coli e cor­ri­doi” può fun­zionare come luo­go del­l’in­fini­to gio­co lin­guis­ti­co che gli artisti di ques­ta mostra inter­pre­tano attra­ver­so le diverse sem­bianze del cor­po dell’arte.

Entrare nel “Labir­in­to del­l’im­mag­i­nario” – come recita il tito­lo di questo prog­et­to espos­i­ti­vo — sig­nifi­ca ritornare alle orig­i­ni, riat­ti­van­do quel­la vocazione all’avven­tu­ra e all’er­ran­za che è sen­za dub­bio uno dei carat­teri fon­da­men­tali del­l’at­to creativo.

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